Questo resoconto è stato scritto da persone che si sono recate nel campo profughi di Dobova, al confine sloveno con la Croazia, dal 3 al 5 gennaio, per vedere in prima persona la situazione e portare solidarietà attiva, pur con i limiti derivanti dalla militarizzazione del campo. La situazione è in continuo e rapido mutamento, la gestione dei campi da parte delle autorità continua a cambiare, quasi sempre in senso peggiorativo per i migranti. Nonostante le condizioni meteorologiche avverse e i tentativi dei governi europei per bloccarlo, il flusso di migranti non si arresta e continua ad essere necessaria la presenza e la solidarietà dei volontari e degli attivisti.
Questi campi vengono chiamati “di transito”, perché si prevede che le persone che vi giungono non stazionino in Slovenia. Il campo non è organizzato per una permanenza di medio o lungo periodo. Le persone sono intruppate e gestite in modo che il loro passaggio sia il più rapido e indolore possibile per lo Stato che attraversano. E’ probabile che situazioni simili si trovino anche in altri campi di altri Stati di “passaggio”.
Siamo riuscite ad accedere al campo attraverso una associazione di volontariato slovena, Slovenska Filantropija, una delle poche ammesse all’interno. La gestione del campo è sotto il controllo di esercito e forze di polizia (compresi contingenti di altri paesi), sono presenti UNHCR (Alto Commissariato ONU per i rifugiati), Croce Rossa, Protezione Civile, Slovenska Filantropija e WAHA (Women and Health Alliance Iternational), associazione che si occupa esclusivamente di donne gravide e bambini piccoli e che mette a disposizione alcuni mezzi, tra cui un container riscaldato in cui poter allattare in un ambiente protetto.
Nessun altro può entrare nel campo, ad eccezione dei giornalisti accreditati, che possono essere autorizzati ad accedere ad alcuni spazi in momenti predefiniti.
La presenza dei volontari è indispensabile per il funzionamento della struttura: in termini molto pratici, ad essi è affidato il grosso dei compiti di pulizia, riordino e gestione delle risorse (cibo, indumenti, coperte). Inoltre sono loro ad interfacciarsi direttamente con le più varie esigenze che possono emergere dalle persone in attesa. I volontari permettono che il loro transito sia un po più umano e caloroso.
Il campo è stato creato su un terreno agricolo, piatto, al confine con la Croazia. Il paesino a cui fa riferimento è su una strada secondaria che si dirige verso Zagabria.
Il campo è composto da tre grandi tende per i profughi, due per la perquisizione e la registrazione, una piccola per la distribuzione del cibo, due tende mediche, una per le visite e l’altra per l’attesa, gestite dalla Croce Rossa con medici e infermieri, un container della Waha, una tenda-magazzino per vestiti, cibo e latte per neonati, alcune tende e container ad uso dei volontari e del personale impiegato dalle varie organizzazioni. All’ingresso del campo ci sono una grande tenda aperta dell’esercito e un carro armato.
La struttura principale è rappresentata dalle tre tende in cui vengono convogliate le persone: la prima è quella in cui aspettano di essere perquisiti e registrati, la seconda e la terza sono quelle in cui vengono divisi, sono la loro “residenza temporanea”, per qualche ora o forse per un giorno, importante e immutabile a meno di necessità famigliari specifiche. A volte infatti capita che qualcuno perda il proprio gruppo famigliare nei passaggi precedenti o durante l’ingresso al campo, ma si può tentare di recuperare, comunicando la propria esigenza a degli addetti della Caritas restoring family links, che si occupano specificatamente dei ricongiungimenti familiari; non sappiamo se tale sforzo è speso anche per i ricongiungimenti che non hanno base familiare.
I tendoni sono molto grandi, il pavimento è in legno e da alcuni tubi in alto viene soffiata aria calda, perciò la temperatura all’interno è accettabile se ben coperti. In ogni tenda ci sono alcuni tavoli da sagra e alcune panche, pochissima cosa per le centinaia di persone che vi vengono stipate, poi ci sono materassini, coperte di tipo militare e a volte anche sacchi a pelo forniti dall’UNHCR e transenne, che vengono usate per dividere lo spazio a seconda delle esigenze.
Le transenne sono usate nella prima tenda per creare serpentine in modo che le persone si mettano in fila verso la piccola tenda della perquisizione; nelle tende di assegnazione invece le transenne vengono usate per dividere in gruppi i rifugiati e l’assegnazione ad un comparto specifico del tendone è molto importante perché quei comparti corrispondono a delle liste che poi corrisponderanno a dei pullman e, così ci è stato detto, all’arrivo in territorio austriaco le liste debbono coincidere con le presenze. Se per qualsiasi motivo una persona non risulta registrata, l’intero gruppo viene respinto e deve ripetere la procedura.
Il percorso di chi arriva è questo: dopo essere scesi, a seconda dei casi, dai pullman o dagli autobus che li hanno prelevati ai treni, i rifugiati entrano in una piccola tenda in cui viene dato loro un sacchetto di plastica (quelli che si usano per comperare la frutta e la verdura al supermercato, per intenderci, che si rompono a sfiorarli) in cui ci sono una mela, due fette di pane, una marmellatina e una cioccolatina spalmabile monoporzione, una bottiglietta di acqua, posate di plastica e un tovagliolo; chi lo desidera può avere anche mezzo litro di latte in tetrapak con il tappo, una scatoletta di carne o di sardine sott’olio.
Le persone che arrivano non sono informate del tempo che dovranno trascorre nel campo, a volte non sanno nemmeno bene dove si trovano geograficamente, ignorano cosa accadrà dopo la perquisizione e il riconoscimento e ciò rende davvero difficile capire cosa accettare di quanto offerto. Le autorità con cui abbiamo parlato ci hanno spiegato che nemmeno loro sanno esattamente calcolare i tempi di permanenza; su questo però qualche dubbio ci è sorto, vedendo la solerzia con cui è stato smaltito il flusso in occasione della presenza dei giornalisti.
Cosa succede ad una persona che ha viaggiato per giorni in condizioni precarie, sovente carica di bagagli contenenti la sua vita e quella dei più piccoli che viaggiano con lui o lei, che spesso e purtroppo durante il viaggio ha rotto la borsa che deve tenersi stretta e che forse in contemporanea deve occuparsi anche di qualche piccolo che corre avanti mettendo i piedi nelle pozzanghere? Queste persone prendono quel che viene dato loro e se gli viene offerto qualcosa di più, se lo capiscono, se hanno il tempo di capirlo, prendono anche questo, cercano di portarselo appresso, assieme a ciò di cui son già carichi e vanno avanti.
Arrivati nella prima tenda vengono messi in fila lungo la serpentina di transenne, se il gruppo è numeroso vien detto loro che dovono aspettare un po in quella tenda e che perciò possono sistemarsi alla bell’e meglio, un eufemismo per dire che possono, se vogliono, bivaccare su quel pavimento lercio usando come supporto di fortuna quello che trovano nella tenda: le poche panche, due o tre tavoli, le coperte sporche di chi è venuto prima.
Non viene dato nulla di caldo, nemmeno un bicchiere di tè; fuori fa freddo, non ci sono tavoli a cui sedersi, ma a chi deve aspettare viene dato del pane da spalmare con marmellata e cioccolata e una mela molto verde… che non può sbucciare, se aveva fame mentre passava dalla tenda del cibo, o se è stato previdente, una scatoletta di sardine… unte… molto unte… che mangerà in piedi mentre aspetta… circondato da bimbi e bagagli. Io vorrei che chi ha pensato questo sistema provasse, solo provasse, a tentare di mangiare le cose che ha fornito, le cose che sono state comunque pagate dalla comunità, per vedere il risultato, e magari anche per istruire noi sui suggerimenti da dare a chi ci chiedeva se potevano avere qualcosa di caldo perché fuori dalla tenda nevicava…
Una parte del nostro lavoro, di solito all’inizio del turno, consisteva nel ripulire le tende dopo il passaggio dei gruppi. La media del transito da Dobova era di circa 800 persone al giorno, tanta umanità tutti i giorni, scanditi da arrivi che a volte sono puntuali e a volte no.
A volte il flusso ha dei picchi impressionanti fino a 2000/2500 persone e il campo fa quello che può per contenere gli effetti collaterali, facilmente immaginabili, di questi passaggi.
L’inizio del nostro primo turno ha coinciso con la fine di uno di questi momenti difficili e lo spettacolo che ci siamo trovate ad affrontare era piuttosto impressionante. La tenda numero uno, che abbiamo pulito con scopettoni industriali e badili, era un immondezzaio. Era davvero difficile immaginare che qualcuno avesse potuto trascorrervi del tempo in attesa del proprio turno. Era una distesa umida di cibo mezzo mangiato, di mele che rotolavano, di scatolette di sardine aperte e rovesciate, di latte, di bottigliette d’acqua, molte sigillate ma sporche, di coperte e materassini, di vaschette di marmellate e cioccolate spiaccicate per terra, di mieli in monoporzione che si appiccicavano ovunque, di pacchi mezzi interi di assorbenti, di biscotti frantumati o intatti in parte, qualche scarpa piccola, grande, un guantino, un berretto, sacchetti di plastica rotti, giacche, un paio di sacchi a pelo. La tenda puzzava come una discarica e l’olezzo delle sardine predominava su tutto. Noi avevamo guanti e mascherina e tanta voglia di rendere quello spazio decente per l’arrivo del prossimo gruppo di persone: davvero non era immaginabile come qualcuno potesse essere accolto in quel posto.
Così abbiamo lavorato in sette bidoni di rifiuti tutti mescolati e gettati in grandi cassoni, quelli che si caricano direttamente sui camion della spazzatura. Bisognava gettare tutto quello che ci sembrava “troppo sporco”. Si potevano conservare solo le scatolette intere, i pacchi di cibo integri, si dovevano ripiegare le coperte o mettere sulle transenne quelle che potevano ancora andare ma ci parevano troppo umide per essere ripiegate, tutte le altre dovevano essere buttate via, irrecuperabili. Buttate per essere incenerite perché così costa meno, ci hanno detto. Quelle forniture vengono dall’UNHCR, che così ha stabilito alla faccia dell’ecosistema e della miseria.
Il passaggio dalla tenda uno alla piccola tenda delle perquisizioni era transennato e allo scoperto, in balia di qualsiasi condizione atmosferica. A volte il passaggio era organizzato in modo che ad un gruppo già perquisito si sostituisse quello successivo, senza che nessuno dovesse permanere allo scoperto, a volte, se i poliziotti che dovevano regolare questo flusso non erano attenti o erano indifferenti o altro, qualunque persona, grande o piccola che fosse, doveva aspettare in questo corridoio all’addiaccio… e qualcuno allungava loro della coperte da usare come riparo. Anche questa ci è sembrata subito una cosa abbastanza stupida e inutilmente crudele: o si era in grado di dare il cambio o si creava una tettoia lungo il percorso…
La perquisizione spesso portava al sequestro di piccoli oggetti da viaggio. Abbiamo visto con i nostri occhi cosa veniva requisito: lamette da barba, specchi, forbicine per unghie, set per il cucito, un termometro. Questa assurdità si somma alle tante che abbiamo visto: sottrarre un set per cucire è stupido, è uno di quegli oggetti che contribuiscono a rendere chiunque ne disponga e lo sappia usare indipendente.
Dopo la perquisizione corporale e dei bagagli i rifugiati entravano nella tenda successiva, per la presentazione dei documenti e la registrazione. Da quello che ci è stato detto la registrazione ora è unica, sembra si siano superate le formalità di ripeterla in ogni stato europeo.
Da quest’ultimo passaggio si accedeva al blocco assegnato e lì le persone rimanevano in attesa di essere nuovamente caricate su pullman o autobus, con destinazione l’Austria.
La permanenza nelle due tende di assegnazione era indefinita, le persone non sapevano per quante ore sarebbero rimaste là, sapevano solo che il passaggio non sarebbe stato immediato. Le persone assegnate ad una tenda entravano e cominciavano a sistemarsi in base a quello che ritenevano più opportuno per loro. Le tenda numero due e tre erano più pulite della prima tenda, l’odore era più simile a quello delle stalle piuttosto che a quello delle discariche. Pile di coperte e materassini attendevano i profughi, per essere distese a terra o essere usate contro il freddo. Molte delle persone che viaggiano in quelle condizioni si ammalano di malattie da raffreddamento e così soffrono ancora di più.
I servizi igenici, situati all’esterno, erano wc chimici in box di plastica; venendo puliti due volte al giorno, le condizioni igieniche erano necessariamente scarse.
Non esiste altro luogo in cui cambiarsi, se non in quei piccoli box toilette.
Solo le donne, con molta fortuna, potevano, entrando in contatto con Waha, essere accompagnate nel loro container in cui era possibile avere un po di privacy.
Nella maggioranza dei casi le persone si arrangiavano lì dove erano e semplicemente non si cambiavano, tranne per stretta necessità, restando così anche bagnati. Ovviamente non avevano alcuna possibilità di lavarsi, qualcuno di loro aveva delle salviette da viaggio ma la maggior parte stazionava in attesa di arrivare dove questo sarebbe stato possibile.
Quello che abbiamo visto è un mondo che si sposta, sono città e campagne, sono comunità con tutte le loro differenze e contraddizioni che si ritrovano a vivere un viaggio dantesco l’una a ridosso dell’altra. Persone delle più varie provenienze economiche, delle più varie esperienze e formazioni, vivono tutte il medesimo percorso nelle medesime condizioni. In mezzo a loro riconosci chi riesce ad adattarsi con più facilità e chi si guarda attorno smarrito, incapace di superare l’ammasso e la sporcizia. Tutti erano comunque rassegnati a sopportare il trattamento che veniva loro riservato, per quanto spesso illogico fosse. Una sera mi è capitato di dover prendere dalle mani di un ragazzo, che me la allungava indicando qualcosa alle mie spalle, una di quelle borsine consegnate all’arrivo, diventato un sacchetto dei rifiuti. La doppia transenna impediva al ragazzo di buttare nel sacchetto grande dei rifiuti quel sacchetto che allungava a me, perché solo io che ero fuori dal recinto vi avevo accesso. In quel blocco, che sembrava quasi pronto a ripartire, l’accesso ai bagni era filtrato da una richiesta specifica al poliziotto che li controllava.
C’erano contadini e professionisti, tanti ragazzi, tanti bambini e bambine, qualcuno nato durante il viaggio. Intere famiglie dai nonni ai nipoti, alcuni parlavano inglese, qualcuno francese e molti si mettevano a disposizione per tradurre le richieste. La gran parte di loro scappava da guerre o dittature. Altri semplicemente si erano messi in marcia alla ricerca di un futuro migliore. Alcuni vedranno riconosciuto il loro status di rifugiati, per altri invece il futuro sarà molto più incerto e pericoloso. Ma lì nel campo apparivano tutti uguali, con le stesse esigenze, le stesse speranze e con lo stesso viaggio infernale alle spalle.
Argenide con l’aiuto di V. e S. e E.